Adagiato, quasi nascosto, tra il Monte Arci e i rilievi della Marmilla si trova Pompu, un paese quasi leggendario. A dispetto di dicerie e falsi miti Pompu esiste. Le prime notizie che abbiamo riguardano l’età giudicale, quando Pompu era compreso nella curatoria del Parte Montis. Doveva avere anche un certo rilievo se nel 1388 viene ricordato nella pace siglata tra Eleonora d’Arborea e il re d’Aragona Giovanni I il cacciatore a conclusione del lunghissimo conflitto. In questo trattato viene citato come villa de Ponpo, retta da un majore, aiutato da cinque juratos e da altri quattro abitanti del paesetto come testimoni. Una delegazione più numerosa di centri importanti come Usellus. Alla fine del XIV sec. Pompu doveva essere dunque un centro di media grandezza con un ceto di liberi majorales. Le notizie riprendono poi alla fine del Quattrocentro, in età Moderna. Sul nome si sono fatte moltissime ipotesi, anche abbastanza fantasiose, ma secondo i linguisti potremmo trovare una spiegazione nell’associazione della parola pompe con quinque con il numero cinque.
Un monumentale e rugoso albero d’ulivo spicca imponente sull’abitato. Maestoso, ben saldo sulle sue radici sta li come il patriarca plurisecolare di Pompu, testimone prezioso dei tempi andati, parte della memoria storica del paese, del territorio e della comunità. Gli ulivi erano una componente importante e in parte lo sono ancora, del paesaggio agrario di Pompu. Ulivi ma anche mandorli e fino al secolo scorso moltissimi alberi da frutto. Ci raccontano gli anziani di giardini ricchi di varietà di susine, di pere e poi albicocche considerate come caramelle per loro allora bambini. Il paesaggio agrario varia tutt’oggi le sue colture a rotazione: grano, fave, ceci, lenticchie e piselli. Ma si trovano anche vigne e orti che colorano il territorio a ridosso del paese. Mentre nella zona del Rio Laccus imperano maestose le roverelle, i lecci, i pioppi, i lentischi. La vegetazione è prettamente mediterranea con l’elicriso, il corbezzolo e l’assenzio che da il nome anche al nuraghe Su Sensu posto al confine con il territorio di Siris.
Al confine con il territorio di Morgongiori si trova il nuraghe Santu Miali. Un complesso archeologico non ancora del tutto studiato che include un nuraghe quadrilobato e il villaggio annesso. Secondo quello che raccontavano gli anziani e proseguendo con il lavoro scientifico di scavo archeologico il nuraghe Santu Miali si è mostrato come un monumento maestoso e singolare. Realizzato in pietra arenaria chiara perfettamente squadrata e collocata, secondo una tecnica costruttiva simile a monumenti sia civili che religiosi del periodo nuragico come Su Tempiesu di Orune o Su Monte di Sorradile. Ciò fa pensare che avesse una funzione distinta e importante nel territorio. La struttura ha una pianta complessa con quattro torri, un cortile interno e il mastio che risulta già restaurato in epoca antica. Dagli scavi fatti (dal 1992 al 2007) è emersa una storia che a ritroso porta fino all’età tardo- antica (IV-V sec. d.C.) quando il nuraghe parzialmente crollato fu utilizzato come luogo di culto, nel cortile e nella parte esterna. La ripresa degli studi scientifici potrà rivelarci moltissimi altri dettagli della storia di questo bellissimo monumento.
La tessitura è la forma di artigianato che, come in molti altri centri del circondario, più di ogni altra rappresenta la tradizione artigianale locale. La storia della tessitura, cosi come della panificazione, affonda le sue radici nella leggenda e nella storia più antica. Si narra di una donna bellissima, Luxia, che abitava nella località chiamata Prabanta e che attendeva il ritorno dei suoi figli tessendo su un telaio d’oro all’interno del nuraghe Santu Miali. In ogni casa, fino al secolo scorso, era presente un telaio dove le donne tessevano tutto ciò che serviva per la casa, per il proprio corredo e successivamente per essere venduto. Copriletti a pibiones, tappeti a froccus, arazzi, asciugamani e altro venivano confezionati dalle mani sapienti delle donne di Pompu e questa tradizione non si è persa. Resta ancora come ultimo baluardo di un sapere antico che si tramanda di madre in figlia seppur con le difficoltà di farne un lavoro vero.